Uomo accovacciato in un angolo della strada, vestiti luridi, volto scavato dalla fatica. Una mano tesa, le dita sporche, il palmo aperto in cerca di una moneta. La gente passa rapida, qualcuno abbassa lo sguardo, qualcuno finge di non vedere, qualcuno lascia cadere una monetina senza fermarsi.

Ecco l’immagine che molti imprenditori hanno in testa quando pensano al referral: loro stessi, ridotti a mendicanti con il cappello in mano, a chiedere un’elemosina professionale.

Referral

La scena cambia di poco a seconda dei settori. Il consulente che pensa di disturbare il suo cliente, l’imprenditore che immagina di sembrare disperato, il dentista che si blocca prima di domandare “conosci qualcuno che ha lo stesso problema?”, il disco in mente “non è professionale, io non chiedo favori, vendo servizi”.

La verità è che la maggioranza degli imprenditori vive il referral quasi con lo stesso imbarazzo con cui si chiede un prestito a un parente. 

Insomma, mettersi nella condizione di domandare un contatto, una segnalazione, alla fine, è spesso percepito come un gesto di disperazione, quasi indegno della propria professionalità.

E non è un’impressione del tutto infondata: quando il referral è gestito male, produce davvero questa sensazione, trasmette goffaggine al cliente e risulta tutto fuorché professionale. È naturale, quindi, che molti siano restii a chiederlo. Questo articolo non vuole liquidare la questione con un “ti sbagli a pensarla così”, ma mostrarti come impostare un sistema di referral in modo elegante ed efficace. E se ancora oggi ti senti riluttante all’idea di farti presentare nuovi clienti da chi già si fida di te, ti prometto che, arrivato in fondo, due calcoli ben fatti ti faranno cambiare prospettiva su quanto stai lasciando sul tavolo!

Perché non facciamo referral volentieri

Abbiamo detto che il problema non è il referral, ma il modo in cui viene percepito, e vale la pena approfondire il concetto. In Italia, domandare viene spesso associato a debolezza. C’è la convinzione che se sei bravo i clienti arrivano da soli, che se devi chiedere vuol dire che sei in difficoltà. 

Non di rado non manca un pizzico di vergogna. Nessuno ama sentirsi in debito con qualcuno, tanto meno con un cliente che ha appena pagato un servizio. Chiedere un referral appare come uno scivolamento di status: da professionista autorevole a mendicante di contatti. E così il referral resta confinato nella lista delle “cose che funzionano, ma che io non farò mai o che farò controvoglia”.

Inoltre, in contesti oggi diffusi dove l’immagine conta più della sostanza, l’imprenditore teme che la richiesta di un referral venga letta come un segnale di mancanza di qualità: “Se davvero fossi bravo, avresti la fila fuori dalla porta, non avresti bisogno di chiedere a me di portarti qualcuno”. Questa convinzione, purtroppo, blocca sul nascere ogni tentativo di attivare il passaparola in modo sistematico.

Altre volte ancora ci si rallenta per il timore di disturbare: molti imprenditori si convincono che il cliente non abbia tempo, che non voglia sentirsi coinvolto, che possa persino infastidirsi all’idea di essere chiamato a segnalare amici o colleghi. Eppure la realtà è molto diversa: un cliente soddisfatto è spesso ben disposto a consigliare un servizio di cui ha beneficiato, perché in quel gesto vede non solo un favore all’imprenditore, ma un atto di cura verso la persona a cui lo raccomanda

Il problema non è il cliente, è la totale mancanza di una cornice appropriata in cui la richiesta viene formulata!

Qui entra in gioco la contraddizione più evidente: gli imprenditori sono disposti a investire decine di migliaia di euro in campagne pubblicitarie a freddo, a testare annunci su Google e Facebook, a spendere budget ingenti per inseguire lead anonimi che forse non compreranno mai, ma si bloccano quando si tratta di attivare la risorsa più potente: i clienti già soddisfatti.

È una sorta di auto-sabotaggio collettivo. Si preferisce complicarsi la vita con strumenti costosi e complessi piuttosto che mettere in moto quello che è già lì, pronto a generare valore senza costi aggiuntivi. Eppure…

Il referral è il modo più elegante per avere clienti a costo zero

Referral

Il paradosso è che, se ci fermassimo cinque secondi a ragionare, ammetteremmo che la miglior pubblicità, quella che ha fatto crescere interi settori ben prima che esistessero Google e Facebook, è sempre stata il passaparola. E il passaparola strutturato non è altro che un sistema di referral: un meccanismo che trasforma clienti soddisfatti in generatori di nuovi clienti.

Certo, l’ego imprenditoriale preferisce immaginare sé stesso come un cavaliere solitario che conquista il mercato a suon di campagne pubblicitarie e colpi di genio, piuttosto che come un professionista che “domanda aiuto” ai propri clienti. Pochi si rendono conto che in realtà il referral è la forma più elegante e naturale di marketing. Non a caso funziona in ogni settore, dall’odontoiatria alla consulenza, dall’arredamento di lusso alle palestre.

A differenza delle campagne a freddo, i referral portano persone già predisposte ad ascoltarti, perché arrivano con una fiducia trasferita. Non sono lead anonimi, sono conoscenti, amici, colleghi di chi ti ha già scelto. E il costo? Lo abbiamo già detto: zero, perché sfrutti una risorsa che hai già: la soddisfazione dei tuoi clienti.

Numeri e statistiche sul referral

Anche se le percentuali possono variare leggermente a seconda di chi conduce lo studio o del settore di riferimento, il quadro rimane sempre lo stesso: fare referral, se fatto bene, è incomparabilmente più efficace che non farlo.

  • Secondo Nielsen, il 92% delle persone si fida più del consiglio di un conoscente che di qualunque pubblicità.

  • I lead generati da referral convertono fino al 50% in più rispetto a quelli generati da campagne a freddo.

  • Il costo di acquisizione cliente può ridursi fino al 70% grazie al referral.

  • Aziende che implementano strategie strutturate di referral registrano crescite fino al 45% del fatturato in più senza aumentare il budget pubblicitario.

Numeri così dovrebbero bastare a convincere chiunque, ma non è così semplice. Perché? Perché le statistiche parlano alla testa, mentre l’imprenditore blocca la mano sul telefono per motivi di pancia.

Sono solo statistiche?

È proprio questo il punto: le statistiche sono utilissime, fanno pensare, ma spesso scatenano il riflesso del “sì, ma io non rientro nel caso generale”. L’imprenditore medio pensa che quei dati riguardino le multinazionali, i big player, le aziende americane con eserciti interni di marketing.

Per questo i numeri, da soli, non bastano. Servono esempi concreti, vicini, che parlino la stessa lingua. Non casi da Harvard Business Review, ma storie di studi, consulenti, piccole imprese che hanno visto i risultati nel proprio bilancio.

Parliamo di casi vicini a te: lo studio Scarano Odontoiatria

Scarano Odontoiatria non è una multinazionale, non ha un reparto marketing interno da centinaia di migliaia di euro, è uno studio odontoiatrico italiano amato dai suoi pazienti che aveva lo stesso problema di tanti: crescere senza dissanguarsi in pubblicità.

Per diverso tempo Daria, manager dello studio, ha studiato con dedizione, disciplina, passione le diverse strategie che potessero amplificare i risultati già positivi che ottenevano con il classico passaparola grazie ai numerosi clienti soddisfatti. Abbonamenti a riviste, corsi, manuali sottolineati fino all’ultima pagina. Ma la domanda era sempre la stessa. 

Ecco le sue parole:
“Ho sempre letto che i referral sono la parte più importante del marketing. Ok… ma: ‘Da dove inizio? Chi contatto? Cosa gli dico?’. Voi mi avete dato gli strumenti necessari per avviare finalmente quello che io chiamo marketing ‘interno’”.

Con Marketi, abbiamo progettato un ecosistema su misura per lo studio e attivato un sistema di referral strutturato. Risultato? 123 mila euro di fatturato generati in più, in 12 mesi, senza spendere un solo euro aggiuntivo in pubblicità.

“Ok, ho capito che il referral vale la pena. E ora?”

A questo punto potresti aprire le danze, chiedere a un cliente soddisfatto di presentarti qualcuno, e il gioco sarebbe fatto, ma proprio questa apparente semplicità inganna molti imprenditori.

È la stessa trappola in cui era caduta anche Daria prima di lavorare con Marketi. Studiava, accumulava conoscenze, ma al momento di tradurle in un sistema concreto rimaneva ferma, perché il “fai da te” non fallisce per mancanza di intelligenza, ma per assenza di metodo. Sembra quasi economico, dà l’illusione di avere il controllo, ma il prezzo lo paghi in un altro modo: tempo perso, risultati mancati, clienti che avresti potuto avere e che nel frattempo si servono dal tuo concorrente.

È la sindrome dell’“eterno studente” del marketing: un accumulo costante di concetti senza mai trasformarli in un processo operativo.

Il risultato che magari ti è anche familiare è la sensazione di “fare tanto” senza però vedere ritorni. È come leggere mille ricette senza mai accendere il forno.  

Un sistema di referral non si può improvvisare perché non è una frase detta al volo, è un insieme di regole e strumenti che rendono la richiesta naturale, elegante e ripetibile. Senza struttura, la richiesta si riduce a un gesto goffo, che imbarazza chi la fa e lascia indifferente chi la riceve.

Gli errori più comuni (e più costosi) del referral

Il primo errore è la genericità. Frasi come “se conosci qualcuno, parlane” non funzionano. Sono troppo vaghe, non attivano nessun meccanismo nella mente del cliente e vengono dimenticate un minuto dopo.

Il secondo errore è la tempistica sbagliata. Molti imprenditori provano a chiedere referral quando il cliente è ormai distante dall’esperienza, quando l’entusiasmo si è raffreddato: non solo non funziona, ma rischi di sembrare invadente.

Il terzo errore è la mancanza di strumenti. Se lasci al cliente l’onere di raccontarti, stai delegando a lui un compito che non può svolgere bene. Non ha le tue parole, non conosce la tua strategia, non sa come presentarti senza sembrare invadente, insomma, non è mica formato come un tuo commerciale! Così rimanda (comprensibilmente), si imbarazza, e alla fine non fa nulla.

Il quarto errore è la mancanza di integrazione. Un referral isolato, anche se riesce, è un episodio. Senza un sistema che lo registri, lo tracci e lo coltivi, resta un contatto perso nel mucchio. E se non hai un CRM che collega le segnalazioni ai tuoi flussi di lavoro, non saprai mai se e quanto il referral funziona.

Il quinto errore, il più sottile, è non misurare i risultati. Ti illudi che “qualcuno mi ha segnalato un amico” equivalga ad avere un sistema di referral, ma non hai numeri su quanti referral chiedi, quanti arrivano, quanti diventano clienti, quanto fatturato generano. 

Se lo studio Scarano avesse continuato con il “ci penso io”, avrebbe di certo risparmiato qualche consulenza, ma non avrebbe neanche incassato quei 123 mila euro in più. È questa la logica che sfugge a chi fa da sé: non si tratta di risparmiare 10.000, ma di rinunciare a guadagnarne 100.000.

Il referral non è un lusso, è un moltiplicatore. Progettare un sistema referral significa avere un sistema che funziona, che non lascia nulla al caso, che integra psicologia, materiali, strumenti e monitoraggio.

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Se l’argomento ti interessa, sappi che non finisce qui. Tutto quello che hai letto in questo articolo — esempi, regole, errori — è solo un assaggio.

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Leggerlo significa smettere di sperare nel passaparola e iniziare a progettare referral che lavorano per te ogni giorno. Significa capire come trasformare ogni cliente soddisfatto in un venditore attivo, felice di portarti nuove opportunità.

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